Nell’arco di una generazione o poco più siamo passati dal «noio volevan savuar…» di Totò al “sono in call per un meeting già schedulato” che rimbalza da ogni casa in questo periodo di smart working e lockdown. E il motivo, nell’uno come nell’altro caso, è che noi italiani l’inglese lo parliamo poco e male. Luogo …
Nell’arco di una generazione o poco più siamo passati dal «noio volevan savuar…» di Totò al “sono in call per un meeting già schedulato” che rimbalza da ogni casa in questo periodo di smart working e lockdown. E il motivo, nell’uno come nell’altro caso, è che noi italiani l’inglese lo parliamo poco e male. Luogo comune? Mica tanto se è vero che siamo al 34° posto al mondo e al 24° in Europa per livello medio di competenza nella lingua inglese. Da cui la situazione paradossale per cui infarciamo le nostre conversazioni di anglicismi (meeting per riunione, call per telefonata o videoconferenza, feedback per riscontro, per non parlare dei obbrobri come schedulare per pianificare) ma quando dobbiamo sostenere una conversazione – o anche scrivere un testo in inglese – cadiamo in clamorosi strafalcioni. Anche sul lavoro.
Vero che la lingua del business (ops, degli affari…) è spesso gergale e settoriale, e più che parlare come Shakespeare o la Regina Elisabetta è importante farsi capire bene e in fretta. Insomma, l’anglofonia è un lessico necessario. Però insomma almeno non scivolare sulle tipiche bucce di banana sarebbe opportuno per chi aspira a una dimensione professionale oltre i confini della patria.
Per esempio: i false friends. Che sono il tranello più insidioso in ogni traduzione. Termini cioè che suonano famigliari ma che traggono in inganno per il loro significato distante. Per esempio actually (che non è “attualmente” ma “in verità”) o eventually (che non è “eventualmente” ma “infine”), o ancora library (biblioteca, non libreria) o parents (genitori, non parenti) per non tacer del sorry (che va usato per scusarsi) usato in vece di excuse me (quando si richiede l’attenzione di qualcuno) o di frasi idiomatiche come “I can’t wait”, che significa non vedo l’ora e sicuramente non “non posso aspettare”. Poi ci sono i peccati veniali, che non generano misunderstanding (ops, fraintendimenti…) ma smascherano subito da dove proveniamo. Per esempio la pronuncia, tipicamente stage (pronunciato all’inglese “steige” quando è un termine francese, e gli inglesi usano internship e noi potremmo dire tirocinio) ma anche mànagement (che si pronuncia con l’accento sulla prima a e non sulla seconda, manàgement). Già evitando questi strafalcioni in inglese potremmo allora farci perdonare il peccato tutto italico di costruire le frasi in italiano e poi tradurle in inglese, che ha una sintassi completamente diversa. Uno dei principali errori da evitare quando si affronta un colloquio in inglese.