È una delle (potenzialmente) grandi novità inserite nella Legge di Stabilità 2016, 9 articoli contenuti in un disegno di legge predisposto dal professor Maurizio Del Conte che introducono ufficialmente lo smart working, o lavoro agile, anche in Italia.
Nulla a che vedere con il vecchio, e mai decollato, telelavoro, utilizzato poco e solo per decentrare a basso costo posizioni lavorative ritenute nno strategiche: lo smart working, per come descritto e normato ora nel 2015, potrebbe davvero ridisegnare il modo in cui lavoriamo in Italia e non solo in profili professionali che della presenza in ufficio hanno sempre potuto fare (relativamente) a meno.
Come riporta Dario Di Vico nelle pagine di Economia del Corriere della Sera:
Agile è definita la prestazione effettuata da lavoratori dipendenti – e non da partite Iva – fuori dei locali aziendali.
3 sono le grandi aree di intervento del nuovo disegno di legge sullo smart working:
La possibilità di eseguire la prestazione lavorativa fuori dai luoghi aziendali anche solo in parte, usando strumenti tecnologici per svolgere il lavoro in remoto e senza l’obbligo di una una postazione fissa, anche fuori dagli spazi aziendali.
Il trattamento economico e normativo non deve essere inferiore o diverso da quello degli altri addetti che operano in azienda: pari retribuzione, stessi criteri per i controlli e uguale copertura dagli infortuni, compreso il tragitto da casa a una postazione di coworking.
Sono riconosciuti anche gli incentivi fiscali e contributivi che la Legge di Stabilità prevede per la contrattazione di secondo livello.
Messe così le cose potrebbe essere l’inizio di una vera flessibilità in grado di “incrementare la produttività e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” (come recita l’articolo uno del DDL). Funzionerà?
I numeri dicono che lo smart working è un mondo già in crescita (secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano “nel 2015 il 17% delle grandi imprese ha messo in atto progetti strutturati di smart working rispetto all’8% nel 2014“). Ma si tratta appunto di grandi imprese, mentre le PMI, che rappresentano la gran parte del tessuto produttivo italiano, sembrano ancora lontane da questo modello:
Solo il 5% ha avviato un progetto strutturato di smart working, il 9% ha introdotto informalmente logiche di flessibilità e autonomia ma oltre una su due non sa di cosa si parli o non è interessata a mettere mano alla propria organizzazione.
Simone Cosimi su Wired
Vero che spesso le PMI italiane sono realtà produttive e manifatturiere per le quali non basta un pc portatile e uno smartphone a incrementare il lavoro agile (sempre Di Vico sul Corriere: “Per ora a usarlo sono prevalentemente aziende di servizi ma un domani le esperienze contamineranno il manifatturiero posto, ad esempio, che la diffusione delle stampanti 3D comporti una disarticolazione del ciclo produttivo stanziale”) e tuttavia l’esplosione di spazi di coworking (349 in Italia, di cui 88 a Milano) potrebbe dare la spinta definitiva a un’organizzazione del lavoro che permetta di ridurre i tempi persi (pensiamo al pendolarismo) e le ricadute socio-ambientali (il traffico pendolaristico su tutti) migliorando la produttività.
Che ne pensate? Ricorrerete alle possibilità offerte dal decreto legge sullo smart working?