La sindrome da burnout è subdola. Non è tanto la quantità in sé di lavoro che la può scatenare, quanto il lavorare troppo e male. Una spirale che è difficile riconoscere e dalla quale è ancora più difficile uscire. Il burnout è un’espressione inglese che indica una condizione molto precisa: il sentirsi schiacciati ed esauriti dal lavoro. Una condizione che in molti hanno sperimentato e sperimentano ma che non dipende solo dalla quantità (numero di ore) o intensità (ritmi) di lavoro. C’è un aspetto più profondo, di vissuto psicologico, che è importante saper riconoscere e invertire prima che diventi cronico e patologico (anche parlandone con il proprio capo).
1. Condizione di debolezza psicologica
È la prima condizione alla base della sindrome da bornout: porsi in una condizione di sudditanza psicologica, con una sensazione di inadeguatezza, sia per quanto riguarda le proprie capacità specifiche che per l’incapacità di “reggere” certi ritmi.
2. Segnali psicosomatici
Somatizzare è una delle tipiche conseguenze del bornout. Trasformare una situazione psichica inconscia in disturbi esteriori (spesso riguardano la pelle, con sfoghi cutanei o arrossamenti, altre volte sono gastrointestinali, oppure le classiche cefalee e insonnia, o ancora inappetenza) è uno dei segnali più evidenti del fatto che si sta lavorando troppo e male. Notare questi segnali non è difficile, più difficile associarli alla malsana condizione lavorativa.
3. Espressioni verbali
Molte le diciamo quasi per scherzo, o per esorcizzare una giornata o settimana di lavoro più intensa del solito: espressioni come “Se penso a quello che ho da fare sto male” oppure “Oggi non ce la posso fare” le abbiamo sentite migliaia di volte. Ma se questa nascono da vera angoscia, tale da scatenare blocchi mentali o reazioni da stress, non sono più un modo di dire ma l’espressione di un malessere profondo. A cui dare un taglio.