Volenti o nolenti il Coronavirus ci ha obbligato ad aver a che fare con lo smart working, e senza nemmeno troppi preamboli. Chi lo sognava da anni e chi da pari tempo lo osteggiava si son dovuti confrontare di colpo con questa diversa, se non proprio nuova o inedita, modalità di lavoro. Che, lockdown o meno, non è certo quella da cartolina di un computer portatile su una spiaggia caraibica ma qualcosa di più complesso, profondo e, per certi aspetti, inaspettato. Ora, dopo 2 mesi di lockdown e con la prospettiva di altri mesi di distanziamento sociale, possiamo già fare un primo temporaneo, ma credibile, bilancio: cosa abbiamo imparato dallo smart working durante il Coronavirus?
1. Il telelavoro non è smart working
Già, aver trasferito le stesse modalità del lavoro in ufficio a casa non è vero smart working ma più semplicemente telelavoro. Termine oggi desueto e che però significa avere orari fissi, strumenti tecnologici prestabiliti, vincolo del luogo (nel caso del lockdown senza alterativa).
2. Lo smart working richiede un cambio di mentalità
Flessibilità, responsabilizzazione e autonomia sono le parole d’ordine dello smart working, sia lato dipendente che lato manager / datore di lavoro. Passare dal telelavoro allo smart working significa passare dal ruolo di dipendenti controllati e valutati in base al tempo e “professionisti” responsabili dei propri progetti all’interno dell’organizzazione. Non facile né immediato.
3. Smart working non significa lavorare meno
Ok, le condizioni del lockdown erano e sono estremamente particolari, ma smart working non significa lavorare meno, anzi: ci sono un sacco di ricerche che dimostrano come la produttività in realtà aumenti, ma è esperienza comune anche il fatto che si finisce a lavorare di più in termini di ore.
4. Lo smart working non piace a tutti
Secondo un sondaggio di GlobalWebIndex piace soprattutto ai più “giovani” (Generazione Z e Millenials) e meno a quelli più “anziani” (Generazione X e Baby Boomers). Piace di più agli uomini e meno alle donne. Piace di più allo staff e meno ai manager. Il problema? Quando gli uni devono aver a che fare con gli altri.
5. Più l’azienda è grande, meglio è
Sembra paradossale, ma è così: più l’azienda è grande e più c’è supporto, anche solo in fatto di strumentazione. Più l’azienda è piccola o famigliare e meno aiuto c’è, anche solo nel concedere questa modalità di lavoro.
6. Si dorme di più e si ha più tempo
Banale, ma alla prova dei fati è così: tolto il tempo del viaggio casa – lavoro, c’è più tempo per svegliarsi con calma e per fare altre cose. Che poi tutto ciò si sia limitato alle mura di casa è l’inconveniente del momento, ma togli il Coronavirus e il work life balance è dimostrato.
7. Si mangia meglio
Il classico effetto collaterale: più tempo a disposizione e più possibilità di cucinare e mangiare meglio. Ok, il lockdown ha spinto ai fornelli metà Paese (e l’altra metà era seduta a tavola ad aspettare…), ma è indubbio che non tornare a casa a un’ora indecente, potersi preparare anche il pranzo e avere modo di fare colazione dovrebbero essere condizioni per cui ci si nutre meglio e in modo più sano.
8 Le mail non sono smart working
Mandarsi mail non significa fare smart working. Anzi, chi apprezza il lavoro agile mal tollera le mail e – sempre secondo il sondaggio GWI – predilige altri strumenti di comunicazione come chat e condivisione di documenti.
9. Lo smart working? Bello, ma a piccole dosi
E sì, il risultato più sorprendente del sondaggio di GWI è che la metà degli intervistati dice che sì, lo smart working è bello, ma quando si tornerà alla normalità vorrà farlo meno di quanto l’abbia fatto in questo periodo. Anzi, meno rispetto al tempo di lavoro tradizionale in ufficio.