Cosa significa davvero essere produttivi?

È l’ossessione di tutti i capi e manager, e l’incubo di qualsiasi lavoratore: non essere abbastanza produttivi. Ma cos’è davvero la produttività? E come si fa ad essere veramente produttivi? Sul sito de Linkiesta c’è una interessante intervista del 2012 a Domenico De Masi, sociologo del lavoro e professore alla Sapienza di Roma, da cui abbiamo …

Cosa significa davvero essere produttivi?

È l’ossessione di tutti i capi e manager, e l’incubo di qualsiasi lavoratore: non essere abbastanza produttivi. Ma cos’è davvero la produttività? E come si fa ad essere veramente produttivi? Sul sito de Linkiesta c’è una interessante intervista del 2012 a Domenico De Masi, sociologo del lavoro e professore alla Sapienza di Roma, da cui abbiamo estratto i passaggi più significativi. Partendo da una frase: «La produttività è un criterio vecchio, al giorno d’oggi non aiuta a definire i ritmi e i risultati del lavoro».

Si dice lavoro, ma si intende il lavoro fisico, cioè l’operaio – ma anche l’idraulico – e questo è il 30% del mondo del lavoro attuale. Si dice lavoro, ma si intende il lavoro intellettuale e creativo, e penso a giornalisti, scrittori, architetti, studiosi, scienziati, ingegneri. E infine si dice lavoro, ma si intende un altro tipo di attività intellettuali ma ripetitive, come la commessa, l’impiegato di banca o di altri istituti, il segretario. Questi ultimi hanno in comune con la seconda categoria il fatto di essere comunque attività non fisiche, e con la prima di essere ripetitive. Ecco, queste sono le macrocategorie. E servirebbe una parola diversa per ognuna.

Chiaro. Ma adesso veniamo alla produttività.
La produttività, appunto, è la formula di Taylor, per cui la quantità di prodotti viene divisa per il tempo umano impiegato per farli, e definisce l’efficenza. Una formula che è nata nelle fabbriche, e che ora vale per il 30% dei lavoratori, cioè quelli che si dedicano al lavoro fisico. Ma vale solo lì. Non ha senso, invece, applicarla negli uffici.
E perché no?
Perché gli uffici sono una specie di pantano, soprattutto per la creatività, ci sono riti distruttivi e ripetitivi che uccidono le idee.

Nei paesi latini – e intendo Italia, ma anche Spagna e Grecia, e America Latina – c’è l’abitudine a stare due o tre ore in più in ufficio. Si dovrebbe uscire alle sei, e invece si rimane fino alle sette, o alle otto. Una cosa buona? Per niente. Non si resta in ufficio per amore del lavoro, ma semmai per odio del mondo esterno, della famiglia, della società. Una cosa che rovina tutto: in Germania, se si deve uscire alle cinque, si esce alle cinque.

Ma allora come si può applicare la produttività al lavoro intellettuale?
In teoria si dovrebbe poter guardare al numero di idee avute in un preciso arco di tempo. Ma è una cosa impossibile e ridicola.
E allora come si fa?
Semplice: spostando la questione dalla quantità alla qualità. Una cosa che cambia tutto. E allora si vedrà che la qualità è direttamente proporzionale a motivazione e intelligenza. O meglio, alla somma tra intelligenza e la motivazione.

Come si fa ad avere lavoratori motivati?
Così: serve stimolare la loro creatività. E affidare incarichi di responsabilità. E, soprattutto, il coinvolgimento e la partecipazione nelle decisioni generali. I lavoratori devono anche avere la certezza della carriera, che significa, per loro, sapere che se si lavora bene, si sarà premiati e, al contrario, non si sarà premiati

Il legame tra controllo e demotivazione è fortissimo. Più un lavoratore è sottoposto a controlli continui, richiami del capo, insistenze, più è demotivato. Ancora di più, poi, se il controllo è burocratizzato. Io l’avevo detto a Brunetta che inserire i tornelli negli uffici della pubblica amministrazione non sarebbe servito a nulla, e che anzi avrebbe avuto effetti deleteri. Ma lui non mi ha ascoltato. E si è visto.