La sindrome da burnout è riconosciuta e definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “risultante dallo stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo”. E se già lo stress cronico da lavoro colpiva milioni di lavoratori in tutto il mondo, la pandemia non ha fatto che aggravare questa condizione. Siamo tutti, da più di un anno, in una situazione di grande stress: costretti in casa, lavorando più di prima e in condizioni di minor agio, spesso dovendoci occupare tutto il giorno dei figli o dei genitori anziani, bombardati da notizie drammatiche e senza un orizzonte certo. Il cocktail perfetto per scatenare una sindrome da burnout. Addirittura il New York Times ha parlato di “pandemic wall”, per indicare una condizione di disagio insormontabile dato da iperconnessione, iperlavoro, costrizione e assenza di contatti sociali.
Ma una chiave di interpretazione si trova nella stessa definizione data dall’OMS, nella parola “gestito”. Spesso infatti chi è vittima di burnout tende a incolpare se stesso, per non aver saputo sopportare il carico di stress e responsabilità a cui è stato sottoposto. Ma la sindrome da burnout dipende anche dall’ambiente di lavoro in cui ci si trova. O meglio dal modo in cui questo ambiente è gestito dai capi.
Christina Maslach, psicologa della Berkley University che si occupa professionalmente di burnout, ha sviluppato il Maslach’s Burnout Inventory, l’elenco dei 6 fattori che possono condurre alla sindrome da burnout. Ma soprattutto quello che possono fare i capi per evitarlo.
1. Gestire i carichi di lavoro
Evidente e banale, ma è il primo step. Troppe cose da fare generano stress, a maggior ragione in questa situazione pandemica in cui si lavora di più e per molti anche peggio.
2. Lasciare autonomia ai lavoratori
Già si lavora di più e male, se poi ci si mette il carico di un ipercontrollo con il retrogusto del sospetto, non lasciando autonomia operativa ai lavoratori, non si fa che peggiorare la situazione.
3. Dare riconoscimenti
Non necessariamente materiali, basta anche una parola di incoraggiamento o ringraziamento o complimento, un messaggio scritto con sincerità. Insomma, far capire in modo umano che i lavoratori non sono solo macchine di produzione cognitiva.
4. Creare un ambiente di lavoro non tossico
Cultura spietata votata ai risultati, competizione malsana, assenza di cooperazione, collaborazione e comunicazione creano il perfetto ambiente di lavoro tossico. Quello che fa esplodere la sindrome da burnout.
5. Gestione equa delle risorse umane
In tre parole: evitare i favoritismi.
6. Dare un significato di valore al lavoro
L’ultimo punto è il più delicato, e riguarda la dimensione identitaria del lavoratore, il ruolo sociale che si riconosce attraverso il lavoro che svolge. Che è un po’ anche la summa dei punti precedenti.
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