Smart-Working: quando si può "staccare"?

Uno dei problemi posti dal massiccio ricorso allo smart-working nella situazione di emergenza dettata dalla pandemia è stato capire quando si poteva “staccare”. O per meglio dire il diritto alla disconnessione e anche – specularmente – il dovere della reperibilità. Due problemi incrociati che sono stati toccati con mano dagli smart workers con l’aumento vertiginoso …

Smart-Working: quando si può "staccare"?

Uno dei problemi posti dal massiccio ricorso allo smart-working nella situazione di emergenza dettata dalla pandemia è stato capire quando si poteva “staccare”. O per meglio dire il diritto alla disconnessione e anche – specularmente – il dovere della reperibilità. Due problemi incrociati che sono stati toccati con mano dagli smart workers con l’aumento vertiginoso delle ore di lavoro effettive durante la giornata, con la difficoltà a capire – proprio da un punto di vista formale e legale – quando si era e si è obbligati a rispondere a e-mail, telefonate e e messaggistica e quando invece si è a pieno diritto in pausa.
In realtà una legge c’è, ed è la 81/2007: vero che il ricorso allo smart working in periodo di pandemia è stato fatto anche in deroga a quella legge (cioè anche unilateralmente da parte del datore di lavoro) ma i capisaldi della legge 81/2017 in tema di tempi di riposo ed equilibrio tra vita lavorativa e vita privata permangono anche in questa situazione di emergenza.
La legge 81/2017 dice una cosa molto chiara: lo smart working consente al lavoratore non solo di svolgere le proprie mansioni fuori dai locali aziendali ma anche di decidere in piena autonomia i tempi del lavoro. Questo dice la legge, poi nella realtà dei fatti spesso non è così e lo è nel modo peggiorativo per il lavoratore. Cioè poche o niente pause e orario di lavoro che si dilata.
Tuttavia, per legge, fatta salva la durata dell’orario di lavoro, che dipende dal contratto di lavoro, poi nello smart working non ci sono orari fissi o predefiniti. Per cui, per esempio, la pausa pranzo non deve necessariamente coincidere con quella “in azienda”, e così l’orario di inizio e fine della prestazione lavorativa.
Fatta la legge, però, trovato l’inghippo. Perché chiaramente la flessibilità garantita dallo smart working non significa stravolgere totalmente ritmi e modalità di lavoro. Perché è qui che interviene l’accordo individuale, che contempera le esigenze dell’azienda e del lavoratore per armonizzare l’organizzazione del lavoro. Tradotto: smart working non significa lavorare di notte ed essere irreperibili di giorno quando tutti gli altri colleghi d’azienda stanno lavorando. Ma può significare prendere la pausa pranzo in modo flessibile, cominciare e finire un po’ dopo o un po’ prima rispetto all’orario di timbratura del cartellino perché si accompagnano i figli a scuola e anche – però – avere il pieno di diritto di non essere più reperibile dopo e prima un determinato orario. Esattamente come se si fosse usciti dall’azienda.
Però è in questa zona grigia che si sono annidate le situazioni più diverse. Ci sono datori di lavoro che hanno semplicemente stabilito che la reperibilità è dovuta solo nell’orario di lavoro formalmente stabilito: questo però non ha impedito l’invio di e-mail e messaggi oltre quel limite da parte di colleghi, capi o clienti. Altri datori di lavoro si sono addirittura spinti verso soluzioni tecnologiche per cui fuori dall’orario di lavoro non è più possibile inviare e ricevere e-mail dal server aziendale: ma anche in questo caso sono stati trovati i modi per bypassare questa situazione. E infine ci sono invece anche casi in cui i datori di lavoro hanno implementato soluzioni tecnologiche per il controllo remoto degli orari di connessione agli strumenti di lavoro aziendali, un tema delicato di cui parleremo in un prossimo articolo.


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